Quanto oggi mi appresto a scrivere non si riferisce ad un tempo troppo recente.
Si tratta di una storia che mi ha molto colpito e risale oramai a diversi mesi fa.
Non so perchè non mi è capitato di scriverne prima. Ho preferito aspettare, per una forma di pudore forse, o di discrezione nei confronti dei protagonisti, di cui, come al solito, non farò nome.
Era mancato nella sua abitazione un signore ben oltre gli ottanta, il presidente di uno storico Juventus club.
La mattina, prima delle esequie, a casa dell’uomo c’era un gran viavài di persone, tutte accorse a portare il proprio personale saluto.
I famigliari erano molto provati, in particolare la giovane figlia (sarà stata sui 35, 40 anni) piangeva a dirotto.
Ricordo che mi aveva sorpreso la sua esternazione così dirompente del dolore, mi veniva naturale il confronto con il cordoglio del tutto composto e interiorizzato dei fratelli.
Questa tensione emotiva aveva poi raggiunto il suo apice al momento della chiusura del feretro, quando la ragazza era esplosa e si era messa a inveire contro di me ed i necrofori: “non chiudete la cassa, lasciatelo stare”, e poi: “siete cattivi, CATTIVI”.
Le sue erano grida di pietà; ci implorava di lasciarla ancora qualche momento con il suo papà, dal quale non avrebbe mai voluto separarsi.
Tale comportamento, ricordo di averlo notato, rispecchiava esattamente i momenti di disperazione che lo psicologo britannico John Bowlby individua nei suoi studi come caratterizzanti una delle prime fasi di esperienza del lutto. Una corrispondenza da manuale.
Quella della ragazza era un sofferenza viscerale, senza filtri, proprio perché libera da ogni contegno.
Il funerale si era poi svolto come da copione, senza fuori programma. La chiesa evangelica era gremita, i famigliari e gli amici più intimi si confondevano con un nutrito numero di tifosi che avevano conosciuto il defunto per via della comune fede juventina: l’ennesima dimostrazione, per una volta positiva, del potenziale aggregante del calcio.
Ricordo poi un’omelia sincera, la partecipazione accorata di tutti e una bellissima canzone interpretata, chitarra e voce, da un giovane nipote.
E la figlia? la figlia che poco prima era andata in escandescenze, mi si era avvicinata al termine della cerimonia e mi aveva porto le sue scuse, sinceramente dispiaciuta. Mi aveva fatto una tenerezza infinita.
“L’amore ha l’amore come solo argomento” scriveva De Andrè in una delle sue poesie in musica.
Lo stesso potrebbe dirsi del dolore: ciò che l’essere umano prova quando è costretto all’ultimo saluto sfugge ad ogni comprensione, ad ogni giudizio e misurazione.
Inutile il tentativo di decodificarlo, innestarci sopra qualsivoglia ragionamento, bisogna solo averne rispetto.
Alberto Grassotti